La storia dell’area del complesso turistico Parco delle Querce
Questo territorio era completamente disabitato tra l’XI e il XII secolo, grazie soprattutto ad una fittissima vegetazione anche oggi visibile (Riserva delle Pianelle) e che nascondeva solo qualche grotta usata come rifugio, anche per i briganti. Sotto i Normanni divenne territorio di proprietà dell’Abbazia di Santa Maria del Galeso, fondata nel 1165 dal barone Riccardo, di rientro dalla seconda crociata, che edificò una chiesa dedicata alla Madonna. La stessa venne poi consacrata dal vescovo Gerardo nel 1169 che pian piano crebbe in dimensioni e funzioni. Ma la svolta avvenne sotto l’arcivescovo Angelo che cedette la chiesa e i suoi possedimenti ai monaci Cistercensi perché vi fondassero un’abbazia e quindi bonificassero anche le zone adiacenti. Nel 1195 una colonia di monaci bianchi provenienti dalla grande abbazia di Sambucina (nella valle del Crati in Calabria) diede vita all’abbazia di Santa Maria del Galeso. Il Galeso, è bene sottolinearlo, è uno dei fiumi più piccoli al mondo. Lungo poco meno di un chilometro e profondo in media appena 0,5 metri, era considerato un fiume “magico”. Non per le sue caratteristiche alchemiche, ma per la suggestione che esso dava al visitatore. Scorre infatti in una zona completamente priva di altri corsi d’acqua, come un “miracolo” della natura e lungo il suo tragitto ha modellato la natura differenziandola dal contesto ambientale tipico. Il fiume è stato fonte di ispirazione per tantissimi poeti, quali il latino Orazio Flacco (che si augurava di tornarci nei suoi ultimi giorni), il poeta mantovano Virgilio, che compose qui le sue “Egloghe”, (che descriveva le sue acque di colore blu “dipinte” da un’alga autoctona). Persino lo storico greco Polibio, nelle “Res Italicae” ha scritto come i Tarantini, che si sentivano a tutti gli effetti degli spartani, chiamavano il fiume “Eurota”, in memoria del fiume che percorreva la città di Sparta. Il fiume è visitabile nei pressi della stazione Nasisi a Taranto. Quale posto migliore per fondare un’abbazia?
Questa crebbe e riuscì a dotarsi di terre e possedimenti sparsi in tutto il territorio, compresi i boschi sulle colline, utili sia per l’approvvigionamento del legname che per il pascolo. Territorio condiviso inizialmente con la Badia di Santa Maria di Crispiano.
Dell’Abbazia del Galeso oggi è possibile vedere parzialmente la sua chiesetta, nei pressi dello svincolo tra la Statale 172 per Martina Franca, provenienti da Ponte Punta Penna.
La vita dell’Abbazia non fu florida per molto tempo, infatti dovette cedere (per mancanza di monaci probabilmente) i suoi possedimenti tra diversi altri proprietari, come il Duca di Martina (anche oggi ritrovabile la contrada “Monti del Duca”) e altri baronati e poi, nei secoli successivi, i terreni vennero ulteriormente suddivisi e frazionati, venduti o ceduti, ad altre famiglie nobili della provincia. A farla da padrone però furono proprio le grandi famiglie martinesi, che riuscirono ad accaparrarsi buona parte dei possedimenti appartenuti a Santa Maria del Galeso (Turnone, De Carolis, Magli, De Siati e tante altre) così come ad alcuni ordini religiosi o parrocchie (i Carmelitani su tutti). Alcuni di questi possedimenti, già dal XVI secolo, possedevano un nucleo abitativo e insediativo preesistente (nuclei fortificati, raccolti spesso intorno ad un pozzo, ad una sorgente o ad una grotta-cappella, come visto in precedenza con la presentazione delle masserie). Altri rimasero allo stato naturale, con vegetazione boschiva e dedita al pascolo o all’agricoltura. Tra queste ultime ritroviamo le terre chiamate “Galeso X”, appartenenti alla fascia collinare tra Martina Franca e Crispiano e finite quasi tutte alle dipendenze della famiglia De Carolis.
I De Carolis col tempo si divisero in più rami. Uno di questi rami possedeva una masseria e diversi appezzamenti di terreno, tra i quali anche una tenuta denominata “Li Russoli”, che comprendeva una masseria con capanne, dispense, magazzini e terreno circostante, e altre terre chiamate “La Morte” e “Caselle”. Proprio quest’ultima è identificabile con il terreno attualmente occupato dal Parco delle Querce, che nel XVII secolo probabilmente non aveva insediamenti né agricoli né abitativi stabili e di un certo interesse. Nel catasto onciario borbonico, datato 1742-1748 però troviamo ben menzionato il sito di “Caselle” che, secondo il registro all’epoca risultava nelle proprietà di un sacerdote martinese, tal Donantonio De Carolis, che aveva preso in eredità i possedimenti della sua famiglia legati ai territori associabili al compartimento “Galeso X”. Il sito di Caselle era descritto in quel periodo come “abitazione di coloni” e la sua origine toponomastica deriva proprio dalla presenza delle “Casedde” ovvero abitazione costituita da trulli che pertanto possiamo datare come edificazione tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, con terreno attiguo ed una estensione di “Tomoli 100”.
I trulli sono esattamente come quelli attualmente visibili e che costruiscono il ristorante dell’Hotel del Parco.
La misura della superficie originaria della tenuta “Caselle” non deve far storcere il naso perché l’unità di misura del Tomolo, nella zona di Taranto, era di gran lunga una delle più sovrastimate del sud Italia. La media “nazionale” era di circa 2150 mq per Tomolo, mentre a Taranto un Tomolo corrispondeva a ben 6.813 mq. di terreno. Pertanto il sito di Caselle (ovvero di Parco delle Querce) nel XVIII secolo aveva un’estensione di oltre 680.000 metri quadrati, quasi tutti costituiti da vegetazione boschiva. Per trovare altre informazioni sulla proprietà boschiva e sull’attività delle “casedde” bisogna rifarsi al catasto murattiano del 1820. Per dovere di cronaca con l’avvento napoleonico e con il governo di Murat vennero soppresse le congregazioni, gli ordini monastici e il sistema feudale che in alcune aree d’Italia era ancora presente. Pertanto la tenuta di Caselle passò nella proprietà di due fratelli, ovvero Donato e Antonio Caroli, sempre di Martina Franca. Ora il dubbio appare chiaro: il cognome Caroli è l’evoluzione post-borbonica della famiglia De Carolis? Le strade di fanno impervie, anche perché entrambi i cognomi sono ancora oggi molto diffusi nel tacco d’Italia. Ma è strano come il nome “Donantonio” abbia dato vita nel registro successivo a “Donato” e “Antonio”, tra l’altro anche doppio nome che spesso si riconduceva alla stessa persona e che era molto comune sin dal XV secolo nella città. Lasciamo tra le righe i dubbi di questo enigma.
Dopo la proprietà Caroli, registrato nel catasto del 1820, dopo venti anni il sito di “Caselle” passò nelle mani di Martucci Nicola, sempre di Martina Franca, ed il sito era registrato come “casa rustica e abitazione”. Questo a testimonianza di come Caselle era abitata ormai da tempo, regolarmente e stabilmente, e fruttava allo Stato 198,75 Ducati di rendita annua. A cavallo tra la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento la tenuta passò nelle mani della famiglia Colucci. Questi restaurarono i trulli settecenteschi e sistemarono l’area esterna, dando poi il nome alla tenuta. La loro proprietà durò poco perché ad impossessarsi di Caselle fu la famiglia Santoro, sempre di Martina Franca. Antichissima e nobile famiglia che ha radici importanti. Infatti il capostipite era il notaio Eustachio Santoro, attivo nel XVIII secolo. Suo figlio, Michele Santoro fu anch’esso una delle figure più importanti di Martina, ovvero è ricordato come chimico, farmacista e capitano dell’esercito. Michele Santoro divenne talmente influente che dal 1848 al 1850 fu vice-sindaco di Martina e nel 1868 fu nominato comandante della guardia nazionale, particolarmente attivo contro il brigantaggio.
La famiglia Santoro pertanto riuscì a mantenere la proprietà di Caselle fino agli anni novanta del secolo scorso. L’ultimo dei proprietari fu proprio un Eustachio Santoro, nome nel solco della tradizione. Anche con i Santoro la proprietà veniva riconosciuta col nome di “Colucci”, che è ritrovabile in alcune carte dell’archivio catastale del Comune di Crispiano e nominata anche nel libro “Le Cento masserie di Crispiano”, anche se poi tra parentesi è individuato anche col nome di “Caselle-Serri”, dal nome della località. A dire il vero la contrada di “Caselle” è per la toponomastica quella di “Grotte Comiteo”, nome ripreso dall’omonima Masseria che contiene una grotta al suo interno, utilizzata nel tempo come magazzino viveri e che si trova a pochi metri più a monte dal Parco delle Querce.
Ma ritornando alla ricostruzione storica del sito dopo Eustachio Santoro la tenuta cessa di avere una conduzione di tipo agricolo-pastorale (infatti pare che la specialità di Caselle fosse l’allevamento di cavalli e muli) per diventare un centro turistico-ricettivo. Infatti la proprietà passò nelle mani dei fratelli Cosimo e Francesco Patronella che con una società a responsabilità limitata costruirono l’attuale struttura Parco delle Querce, restaurando i trulli originari (visibile ancora oggi il pozzo esterno con abbeveratoio) e creando un parco acquatico, una grande Sala ricevimenti con tetto in travi di legno massello, un hotel ed utilizzando proprio i trulli come ristorante interno all’hotel. Dopo un periodo florido e di successo il Parco delle Querce subì un lento declino dal 2015 al 2018.
Nel 2019 la proprietà è passata nuovamente di mano, grazie all’acquisizione da parte del noto imprenditore martinese Stefano Scatigna che nel giro di due anni è riuscito a restaurare tutti i locali, a riqualificare l’area e a rimetterla in sesto.